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Diverso...

  • redazionemillebatt
  • 21 giu
  • Tempo di lettura: 2 min


Ho capito di essere diverso molto prima di conoscere davvero il significato di quella parola. Non lo sapevo con la testa, ma lo sentivo dentro. Un leggero scarto, un battito fuori tempo.

Quando gli altri bambini correvano con le macchinine tra le mani, facevano a gara con le pistole giocattolo, gridavano e cadevano a terra fingendo ferite, io cercavo altrove. Trovavo pace tra le bambine. Lì potevo inventare storie, disegnare mondi, colorare emozioni. A me non piaceva combattere, io volevo creare. Sognare. Toccare la bellezza.

Ricordo ancora il primo giorno in cui rimasi incantato davanti a una gonna leggera. Svolazzava nel vento come se avesse un'anima. I tessuti, i colori, le trame morbide: era come se parlassero una lingua che solo io potevo capire. Avrei voluto indossarli. Sentirmi anch’io bello, fluido, libero. Ma sapevo che non potevo. Non per vergogna mia — perché dentro di me, lo sentivo, era naturale —ma per la vergogna degli altri.

Ogni mio gesto “troppo delicato”, ogni mio sguardo “troppo curioso” veniva deriso. Dai compagni, sì… ma soprattutto dai miei genitori. Loro ridevano. Oppure mi guardavano con occhi duri, spenti. Mio padre diceva che sembravo “uno scemo”. Mia madre abbassava lo sguardo come se si vergognasse di me.

A tredici anni è arrivato lui. Un compagno di scuola. Gentile, mai aggressivo. Aveva un sorriso che mi toglieva il respiro. Non capivo esattamente cosa fosse quel nodo dolce nello stomaco… ma sapevo che era qualcosa di importante. Di diverso. Quando ero accanto a lui per caso, tremavo. Le mani sudate, le parole incastrate tra i denti. Così, per proteggermi, mi allontanavo. Facevo finta di niente. E ogni volta che lo facevo, perdevo un pezzo di me.

Le mie amiche sono state il mio primo rifugio. Non ho mai detto loro tutto, ma ho dato qualche briciola. Piccoli indizi di una verità troppo grande per essere accolta. Eppure mi ascoltavano. Non mi facevano sentire strano. Con loro non ero “sbagliato”. E questo mi ha salvato.

A 17 anni, invece, è arrivato davvero lui. Più grande, più sicuro. Mi ha guardato con occhi che non avevano paura. Mi ha chiesto il numero. E io… ho detto sì.

Sono passati più di tre anni da quel momento. Stiamo ancora insieme. Ci amiamo nel silenzio di stanze chiuse, tra le righe dei messaggi che non posso mostrare, nelle mani intrecciate solo quando nessuno guarda.

La mia famiglia non sa nulla. Per loro, lui è “un amico”. Un nome qualsiasi, un volto tra tanti.

Ma lui è il mio amore. È casa. È luce. È tutto ciò che ho sempre desiderato. E non posso gridarlo al mondo. Non ancora.

Perché lo so: se lo sapessero, non accetterebbero. Non lui. E nemmeno me.

Eppure io non sono più quel bambino spaventato dai colori. Non sono più quello che abbassava lo sguardo per non disturbare. Sono un ragazzo di vent’anni che sogna una vita libera. Una vita dove amare non sia una colpa. Una vita dove essere sé stessi non significhi deludere.

Per ora scrivo qui. Per ora ve lo dico così, senza nome.

Perché scrivere raccontare mi farà bene.

Anonimo


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Mercedes

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